venerdì 10 gennaio 2014

GUSTAVO ADOLFO BECQUER - LXXVI

   Nell'imponente navata
   del tempio bizantino,
vidi la gotica tomba all'incerta
luce che tremava sul vetro dipinto.
   Le mani sul petto
   e nelle mani un libro,
una bella donna riposava
sull'urna, dello scalpello prodigio.
   Del corpo abbandonato,
   sotto il dolce peso annientato,
come se di molli piume e raso fosse,
si piegava, di granito, il letto.
   Dell'ultimo sorriso,
   lo splendore divino,
servava il volto, come il cielo conserva
del sole che muore il raggio fuggitivo.
   Del capezzale di pietra,
   seduti sul filo,
due angeli, alle labbra il dito,
imponevano silenzio nel recinto.
   Non sembrava morta,
   dall'arco massiccio
sembrava dormire nella penombra,
e in sogno vedere il paradiso.
   Mi avvicinai della navata
   all'ombroso angolo,
come chi arriva con silenzioso passo
alla culla dove dorme un pargolo.
   La contemplai un momento.
   E quello splendore fioco,
quel letto di pietra che offriva,
vicino al muro un altro posto vuoto,
   nell'anima ravvivarono
   la sete dell'eterno,
l'ansia di quella vita della morte
per la quale i secoli passano in un baleno...
...
   Stanco del conflitto
in cui lottando vivo,
qualche volta rammento con invidia
quell'angolo nascosto e buio.
   Di quella muta e pallida
   donna mi ricordo e dico:
"O, che amore tanto cheto quello della morte!
Che sonno, quello del sepolcro, così tranquillo!"

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