fotografia Piero Reggio |
domenica 30 settembre 2012
sabato 29 settembre 2012
venerdì 28 settembre 2012
un orto sperimentale a Versailles al tempo del re Sole da :"Il signor giardiniere " di F. Richaud ed Ponte alle Grazie
Non lontano dalle sue stanze, La Quintinie aveva delimitato un pezzetto di terra ricca, proceduto all'apertura fragrante dei solchi, erpicato, spianato, assodato, addossato porche e prode, infine seminato fiori e verdure. In quel laboratorio a cielo aperto, ogni pianta godeva di cure costanti. Il giardiniere sperimentava nuove tecniche di riproduzione per talea o per margotta, innestava , incrociava, incannucciava una specie, ne lasciava accestire un'altra, impiegava tutto il suo sapere per sviluppare nei suoi vegetali delle formidabili capacità di resistenza alle intemperie.Combinava i seminati perchè le piante si rafforzassero scambievolmente; i pomodori maturavano alla perfezione con le lattughe o i cavoli, il prezzemolo prosperava con le carote, le carote con i cavolfiori. Faceva la guerra alle limacce e alle chiocciole che non sopportavano il timo o la salvia, alle formiche che detestavano il sambuco o la cappuccina, alle mosche disturbate dal basilico, alle pecchie allontanate dai fiori del pero coscio, ai topi e alle arvicole respinti dall'euforbia,dal melitoto o dalla cipolla.
Il giardiniere studiava anche le applicazioni che poteva trarre dalle sue piante. Leggeva l'Erbario di Paracelso o l'Antidotarium florentinum mettendone a frutto gli insegnamenti.Così le carote, consumate crude, combattevano la pigrizia intestinale; cotte, arrestavano la diarrea; la viola del pensiero selvatica curava i reumatismi e le malattie della pelle; le foglie di cavolo cauterizzavano le piaghe; la bardana, l'issopo, il tasso barbasso alleviavano le tossi sibilanti generate dai terreni melmosi del ponente; le melanzane, gli asparagi e le cipolle possedevano virtù diuretiche; i semi di zucca proprietà vermifughe.
Una delle stanze del giardiniere si era trasformata in laboratorio di speziale. Lì, i nomi dei più illustri patres farmacognosiae convivevano con gli strumenti più disparati Alberto Magno, Nicolas Monardés, Pier Andrea Mattioli, Andreas Libavius, Otto Brunfels, mortai, bilance, pignatte, albarelli, boccette da tintura. La Quintinie lavorava spesso fino a tardi per preparare le sue polverine.
Il giardiniere studiava anche le applicazioni che poteva trarre dalle sue piante. Leggeva l'Erbario di Paracelso o l'Antidotarium florentinum mettendone a frutto gli insegnamenti.Così le carote, consumate crude, combattevano la pigrizia intestinale; cotte, arrestavano la diarrea; la viola del pensiero selvatica curava i reumatismi e le malattie della pelle; le foglie di cavolo cauterizzavano le piaghe; la bardana, l'issopo, il tasso barbasso alleviavano le tossi sibilanti generate dai terreni melmosi del ponente; le melanzane, gli asparagi e le cipolle possedevano virtù diuretiche; i semi di zucca proprietà vermifughe.
Una delle stanze del giardiniere si era trasformata in laboratorio di speziale. Lì, i nomi dei più illustri patres farmacognosiae convivevano con gli strumenti più disparati Alberto Magno, Nicolas Monardés, Pier Andrea Mattioli, Andreas Libavius, Otto Brunfels, mortai, bilance, pignatte, albarelli, boccette da tintura. La Quintinie lavorava spesso fino a tardi per preparare le sue polverine.
gli orti e i frutteti creati da Jean-Baptiste de La Quintinie |
giovedì 27 settembre 2012
la nascita dei giardini di Versailles da "Il re Sole" di Guido Gerosa
Il più bello dei palazzi doveva assolutamente dotarsi di parchi e giardini insuperabili. Luigi XIV aveva fatto di Le Vau il suo primo architetto, di Le Brun il suo primo pittore e trovò in André Le Notre (1613-1700) il suo primo giardiniere, l'ideatore e disegnatore dei parchi di Versailles. André, nipote di Pierre Le Notre, giardiniere delle Tuileries a fine Cinquecento, e figlio di Jean Le Notre, capo giardiniere di Luigi XIII, diventò il poeta dei giardini a metà del secolo.
Esordì col parco di Vaux-le-Vicomte, poi aprì la seconda fase della sua storia artistica e realizzò il suo capolavoro immortale a Versailles. Le Notre era assai sensibile alle esigenza della scienza, adattò mirabilmente la sua creazione alle nuove scoperte delle leggi dell'ottica e dell'idraulica, studiò le proprietà delle acque e dell'atmosfera e fece meraviglie mai viste. A Versailles introdusse fontane di sogno come Le Grandes Eaux, arrivò a trapiantare intere foreste dalla Normandia e dalle Fiandre e si fece mandare 50.000 bulbi da Costantinopoli, il regno orientale dei fiori.
Per preparare i giardini mosse addirittura l'esercito. Le Guardie Svizzere scavarono il lago monumentale che porta il loro nome. E' un bacino smisurato, più grande di place de la Concorde.
Le opere di costruzione proseguirono tra scontri di asprezza inenarrabile. Gli addetti supplicarono più volte il sovrano di lasciar loro abbattere il padiglione di caccia di Luigi XIII. Quell'edificio pericolante impediva il loro lavoro. Il re rispose seccato:"Se per qualsiasi caso il padiglione sparisse, dovrei farlo ricostruire mattone su mattone. Immaginate se ve lo lascio buttar giù":"Distrugge tutta la vista"piansero desolati i cortigiani.
Ma qualcuno era assai duro con la creazione del re. Saint-Simon, il nemico giurato di Luigi XIV nei suoi Memoires,ne dà un giudizio feroce, che riportiamo integralmente:
Saint-Germain, luogo unico per raccogliere le meraviglie della vista, con gli incanti e le comodità della Senna, infine una città tutta fatta e la cui posizione intratteneva da sola, Luigi XIV l'abbandonò per Versailles, il più triste e più ingrato di tutti i luoghi, senza vita, senza boschi, senz'acqua, senza terra, perchè tutto vi è sabbia mobile o acquitrino, di conseguenza senz'aria, il che non può essere buono.
Il re si compiacque di tiranneggiare la natura, di domarla a forza d'arte e di tesori. Vi costruì di tutto, una cosa dopo l'altra, senza disegno generale. Il bello e il brutto vi furono cacciati insieme, il vasto e lo strangolato. Il suo appartamento e quello della regina vi hanno le ultime scomodità, con le viste dei gabinetti e delle stanze dietro, le più oscure, le più segregate, le più puzzolenti. I giardini, la cui magnificenza sbalordisce, ma il cui più piccolo uso scoraggia e disgusta, sono di pessimo gusto. Vi si è condotti nel fresco dell'ombra da una vasta zona torrida, alla fine della quale non c'è da salire o da scendere. Con la collina, che è brevissima, finiscono i giardini.
Il taglio brucia i piedi. Ma senza di esso ci s'immergerebbe qua nelle sabbie e là nel più nero fango. La violenza ch'è stata fatta dappertutto alla natura respinge e disgusta nostro malgrado. L'abbondanza delle acque forzate e raccolte da ogni parte le rende verdi, spesse, melmose. Spandono un'umidità malsana e sensibile, un odore che lo è ancora di più. I loro effetti sono incomparabili.Da tutto questo risulta che si ammira e si fugge quel capolavoro così rovinoso e di cattivo gusto.
Così lamenta il maligno Saint-Simon. Scrive Madame de Sévigné in una sua lettera alla figlia:Una grande mortalità affligge gli operai: Ogni notte carichi di morti sono portati via come da un ospedale durante una pestilenza. Queste melanconiche processioni sono tenute segrete il più possibile. Per non allarmare gli altri operai.
Primi Visconti, nei suoi "Memoires sur la Cour de Louis XIV", commenta: L'aria qui è pessima. Le acque putride la infettano al punto che d'agosto tutti si ammalano. Ma il re follemente insiste a vivere qui come se fosse un paradiso.
Esordì col parco di Vaux-le-Vicomte, poi aprì la seconda fase della sua storia artistica e realizzò il suo capolavoro immortale a Versailles. Le Notre era assai sensibile alle esigenza della scienza, adattò mirabilmente la sua creazione alle nuove scoperte delle leggi dell'ottica e dell'idraulica, studiò le proprietà delle acque e dell'atmosfera e fece meraviglie mai viste. A Versailles introdusse fontane di sogno come Le Grandes Eaux, arrivò a trapiantare intere foreste dalla Normandia e dalle Fiandre e si fece mandare 50.000 bulbi da Costantinopoli, il regno orientale dei fiori.
Per preparare i giardini mosse addirittura l'esercito. Le Guardie Svizzere scavarono il lago monumentale che porta il loro nome. E' un bacino smisurato, più grande di place de la Concorde.
Le opere di costruzione proseguirono tra scontri di asprezza inenarrabile. Gli addetti supplicarono più volte il sovrano di lasciar loro abbattere il padiglione di caccia di Luigi XIII. Quell'edificio pericolante impediva il loro lavoro. Il re rispose seccato:"Se per qualsiasi caso il padiglione sparisse, dovrei farlo ricostruire mattone su mattone. Immaginate se ve lo lascio buttar giù":"Distrugge tutta la vista"piansero desolati i cortigiani.
Ma qualcuno era assai duro con la creazione del re. Saint-Simon, il nemico giurato di Luigi XIV nei suoi Memoires,ne dà un giudizio feroce, che riportiamo integralmente:
Saint-Germain, luogo unico per raccogliere le meraviglie della vista, con gli incanti e le comodità della Senna, infine una città tutta fatta e la cui posizione intratteneva da sola, Luigi XIV l'abbandonò per Versailles, il più triste e più ingrato di tutti i luoghi, senza vita, senza boschi, senz'acqua, senza terra, perchè tutto vi è sabbia mobile o acquitrino, di conseguenza senz'aria, il che non può essere buono.
Il re si compiacque di tiranneggiare la natura, di domarla a forza d'arte e di tesori. Vi costruì di tutto, una cosa dopo l'altra, senza disegno generale. Il bello e il brutto vi furono cacciati insieme, il vasto e lo strangolato. Il suo appartamento e quello della regina vi hanno le ultime scomodità, con le viste dei gabinetti e delle stanze dietro, le più oscure, le più segregate, le più puzzolenti. I giardini, la cui magnificenza sbalordisce, ma il cui più piccolo uso scoraggia e disgusta, sono di pessimo gusto. Vi si è condotti nel fresco dell'ombra da una vasta zona torrida, alla fine della quale non c'è da salire o da scendere. Con la collina, che è brevissima, finiscono i giardini.
Il taglio brucia i piedi. Ma senza di esso ci s'immergerebbe qua nelle sabbie e là nel più nero fango. La violenza ch'è stata fatta dappertutto alla natura respinge e disgusta nostro malgrado. L'abbondanza delle acque forzate e raccolte da ogni parte le rende verdi, spesse, melmose. Spandono un'umidità malsana e sensibile, un odore che lo è ancora di più. I loro effetti sono incomparabili.Da tutto questo risulta che si ammira e si fugge quel capolavoro così rovinoso e di cattivo gusto.
Così lamenta il maligno Saint-Simon. Scrive Madame de Sévigné in una sua lettera alla figlia:Una grande mortalità affligge gli operai: Ogni notte carichi di morti sono portati via come da un ospedale durante una pestilenza. Queste melanconiche processioni sono tenute segrete il più possibile. Per non allarmare gli altri operai.
Primi Visconti, nei suoi "Memoires sur la Cour de Louis XIV", commenta: L'aria qui è pessima. Le acque putride la infettano al punto che d'agosto tutti si ammalano. Ma il re follemente insiste a vivere qui come se fosse un paradiso.
mercoledì 26 settembre 2012
CONFESSO CHE HO DIPINTO
martedì 25 settembre 2012
precoce autunno di un morente amore (Valerij Brjusov 1873-1924)
Precoce autunno di un morente amore.
L'oro dei fiori quasi mi fa male
nell'autunno precoce, o morto amore.
Pallidi i rami, squallido il viale:
nel cielo scialbo e tremulo che muore
c'è un silenzio e un candore immemoriale.
Cadon foglie del vento alla carezza
e lontanando oscillano nel volo
(rimembranze d'un sogno alla carezza).
Vivere o no fa bene al cuore solo,
ove miete la gioia e la tristezza
una falce che taglia senza duolo.
Sole senza le nuvole di prima,
pioggia che di rugiada lascia scia,
carezze senza i fremiti di prima,
mentre rose sfioriscono per via.
Una fonte di pace in cuore adima
felicità senz'odio o gelosia.
Addio, giorni d'autunno, giorni azzurri,
dagli alberi ora d'oro ora purpurei
(o prima dell'addio, momenti azzurri),
vaga corona ai soli ormai maturi,
giorni muti di lacrime, o sussurri
nella mite umiltà dei cuori puri...
L'oro dei fiori quasi mi fa male
nell'autunno precoce, o morto amore.
Pallidi i rami, squallido il viale:
nel cielo scialbo e tremulo che muore
c'è un silenzio e un candore immemoriale.
Cadon foglie del vento alla carezza
e lontanando oscillano nel volo
(rimembranze d'un sogno alla carezza).
Vivere o no fa bene al cuore solo,
ove miete la gioia e la tristezza
una falce che taglia senza duolo.
Sole senza le nuvole di prima,
pioggia che di rugiada lascia scia,
carezze senza i fremiti di prima,
mentre rose sfioriscono per via.
Una fonte di pace in cuore adima
felicità senz'odio o gelosia.
Addio, giorni d'autunno, giorni azzurri,
dagli alberi ora d'oro ora purpurei
(o prima dell'addio, momenti azzurri),
vaga corona ai soli ormai maturi,
giorni muti di lacrime, o sussurri
nella mite umiltà dei cuori puri...
lunedì 24 settembre 2012
di nuovo lunedì ! un poesia in tema:IL GIROTONDO DEL FANNULLONE di Diego Valeri
Il lunedì, ch'è il dì dopo la festa,
o Dio, che ho mal di testa,
non posso lavorar!
Il martedì mi siedo sulla soglia
ad aspettar la voglia
che avrò di lavorar.
Il mercoledì preparo i miei strumenti,
ma, ahimè, c'è il mal di denti,
non posso lavorar.
Il giovedì, che fa così bel tempo,
davvero non mi sento
di andare a lavorar.
Il venerdì , ch'è il dì della Passione,
mi metto in devozione,
non posso lavorar.
Sabato, sì ch'è proprio il giorno buono;
ma per un giorno solo
che vale lavorar?
o Dio, che ho mal di testa,
non posso lavorar!
Il martedì mi siedo sulla soglia
ad aspettar la voglia
che avrò di lavorar.
Il mercoledì preparo i miei strumenti,
ma, ahimè, c'è il mal di denti,
non posso lavorar.
Il giovedì, che fa così bel tempo,
davvero non mi sento
di andare a lavorar.
Il venerdì , ch'è il dì della Passione,
mi metto in devozione,
non posso lavorar.
Sabato, sì ch'è proprio il giorno buono;
ma per un giorno solo
che vale lavorar?
domenica 23 settembre 2012
sabato 22 settembre 2012
venerdì 21 settembre 2012
UN VENTO NERO (DIEGO VALERI 1887-1976)
UN VENTO NERO
HA OSCURATO, IMPROVVISO,
LA LAGUNA, ROTTA, CRESTATA
DI LIVIDE SCHIUME.
QUI SOTTO CASA L'ONDA BATTE FORTE
COME UN CUORE IMPAZZITO.
MA LAGGIU', VEDI,
DOV'ESSA FA ORIZZONTE,
NON E' CHE PACE E LUCE
E' UNA LINEA RETTA DI LUCE
CHE TAGLIA L'INFINITO.
HA OSCURATO, IMPROVVISO,
LA LAGUNA, ROTTA, CRESTATA
DI LIVIDE SCHIUME.
QUI SOTTO CASA L'ONDA BATTE FORTE
COME UN CUORE IMPAZZITO.
MA LAGGIU', VEDI,
DOV'ESSA FA ORIZZONTE,
NON E' CHE PACE E LUCE
E' UNA LINEA RETTA DI LUCE
CHE TAGLIA L'INFINITO.
giovedì 20 settembre 2012
al pittore I...
L'albero
Sull'acqua il riflesso.
La neve
in alto
fredda
toccata dal sole.
La casa
il campo dorato
il papavero rosso.
Il tuo cuore
perchè
quieto
lontano da Parigi?
I tuoi occhi
profondi
stanchi
la gloria che non hai
il successo
Quale doloroso
inquieto errore
il tuo cuore
appeso
in quella saletta buia
mentre pazzi orologi
ti portano via gli anni.
Sull'acqua il riflesso.
La neve
in alto
fredda
toccata dal sole.
La casa
il campo dorato
il papavero rosso.
Il tuo cuore
perchè
quieto
lontano da Parigi?
I tuoi occhi
profondi
stanchi
la gloria che non hai
il successo
Quale doloroso
inquieto errore
il tuo cuore
appeso
in quella saletta buia
mentre pazzi orologi
ti portano via gli anni.
mercoledì 19 settembre 2012
IL POETA SOLITARIO ( GIOVANNI PASCOLI)
O dolce usignolo che ascolto
(non sai dove) in questa gran pace
cantare cantare tra il folto,
là, dei sanguini e delle acace;
t'ho presa - perdona usignolo -
una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo,
nella sera, al lume di luna.
E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un molle gorgoglio di polla,
un lontano fischio di treno...
Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù
riprende nel cuore il ritorno
verso quello che non è più.
Si trova al nativo villaggio,
vi ritrova quello che c'era:
l'odore di mesi-di.maggio
buon odore di rose e di cera.
Ne ronzano le litanie,
come l'api intorno una culla:
ci sono due voci sì pie!
di sua madre e d'una fanciulla.
Poi fatto silenzio , pian piano,
nella nota mia, che t'ho presa,
risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa.
Riprende l'antica preghiera,
ch'ora ora non ha perchè;
si trova con quello che c'era,
ch'ora ora ora non c'è....
Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
ma di notte, perch'ho vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.
(non sai dove) in questa gran pace
cantare cantare tra il folto,
là, dei sanguini e delle acace;
t'ho presa - perdona usignolo -
una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo,
nella sera, al lume di luna.
E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un molle gorgoglio di polla,
un lontano fischio di treno...
Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù
riprende nel cuore il ritorno
verso quello che non è più.
Si trova al nativo villaggio,
vi ritrova quello che c'era:
l'odore di mesi-di.maggio
buon odore di rose e di cera.
Ne ronzano le litanie,
come l'api intorno una culla:
ci sono due voci sì pie!
di sua madre e d'una fanciulla.
Poi fatto silenzio , pian piano,
nella nota mia, che t'ho presa,
risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa.
Riprende l'antica preghiera,
ch'ora ora non ha perchè;
si trova con quello che c'era,
ch'ora ora ora non c'è....
Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
ma di notte, perch'ho vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.
martedì 18 settembre 2012
LA CARITA' SOLTANTO ( MARGHERITA GUIDACCI 1921-1992)
Hai perduto la fede e la speranza.
Proprio ora, nel tratto più difficile
e minaccioso, quando tutte le vie
s'aggomitolano in labirinti
e sempre più imperfetta è la conoscenza,
sempre più lacunosa la profezia,
sempre più nera la nube dell'enigma,
proprio ora hai perduto quelle fide compagne!
Ma la terza sorella, la più grande,
non t'abbandona, anzi ti stringe a sè
più fortemente. Arde di carità
il tuo cuore e nel vincolo di fuoco
adombrando la rosa, trasfigura in giardini
tutta la tua intricata solitudine.
Quasi tu avessi già passato il varco
oltre il quale, comunque, non possono seguirci
fede e speranza, non più necessarie,
la carità soltanto ti possiede,
per te sola accende la visione.
Proprio ora, nel tratto più difficile
e minaccioso, quando tutte le vie
s'aggomitolano in labirinti
e sempre più imperfetta è la conoscenza,
sempre più lacunosa la profezia,
sempre più nera la nube dell'enigma,
proprio ora hai perduto quelle fide compagne!
Ma la terza sorella, la più grande,
non t'abbandona, anzi ti stringe a sè
più fortemente. Arde di carità
il tuo cuore e nel vincolo di fuoco
adombrando la rosa, trasfigura in giardini
tutta la tua intricata solitudine.
Quasi tu avessi già passato il varco
oltre il quale, comunque, non possono seguirci
fede e speranza, non più necessarie,
la carità soltanto ti possiede,
per te sola accende la visione.
lunedì 17 settembre 2012
gli oggetti cari al cuore
Con il passare anni è cambiata la categoria delle cose che ritengo importanti; prima amavo gli oggetti esteticamente perfetti ma freddi ora mi sono cari quelli che possiedono un cuore, di sicuro tutti quelli che vengono da mia figlia e poi quelli appartenuti ai miei genitori. Uno mi è particolarmente prezioso: una piccola scatolina rotonda in legno decorata da un dipinto di rose che è stato il primo regalo di mio papà a mia mamma, nel 1938. La guardo e penso allo loro giovinezza, chissà se lei era stata contenta del regalo o si aspettava qualcosa di più; e lui perchè aveva scelto proprio una scatolina? Per nasconderci un segreto? In effetti dentro c'è un braccialetto di metallo con una placca incisa : Aldo e Angela per sempre uniti, e effettivamente sono stati insieme fino al 2004 quando lei per prima ci ha lasciato, e poi lui l'ha raggiunta.
Rimpiango di non aver mai indagato a fondo sull'inizio della loro storia, mi bastava vederli insieme e non mi interessava altro.Di sicuro quella scatolina è stata importante se lei l'ha conservata per tutti questi anni e non è mai andata smarrita nei numerosi traslochi che hanno caratterizzato la loro vita seguendo lui nelle varie sedi di servizio.
Rimpiango di non aver mai indagato a fondo sull'inizio della loro storia, mi bastava vederli insieme e non mi interessava altro.Di sicuro quella scatolina è stata importante se lei l'ha conservata per tutti questi anni e non è mai andata smarrita nei numerosi traslochi che hanno caratterizzato la loro vita seguendo lui nelle varie sedi di servizio.
domenica 16 settembre 2012
sabato 15 settembre 2012
un cestino di mele rosse ( a pois, a righe, a quadretti...)
Per rilassarsi un pò con qualche scampolo di stoffa e di feltro, ago filo e forbici si inventa un cestino di mele...
venerdì 14 settembre 2012
la luna sulla collina
giovedì 13 settembre 2012
presagio d'autunno con un pensiero alla prossima primavera
Oggi il cielo è azzurro intenso, non ci sono nuvole ma un'aria fredda. Il viale degli Angeli e quasi tutto d'oro, resistono alcuni ippocastani, ma l'atmosfera è ormai di fine estate. Lungo la pista ciclabile non ci sono più fiori e spighe, ma cardi e rovi carichi di more, anche negli orti ormai solo più le zucche sono in piena esplosione. Il gatto dei vicini fa vita ritirata, una breve passeggiata curiosa e poi sparisce. Sul balcone fioriscono ancora astri, bocche di leone, qualche piccola rosa e le coloratissime portulache; ai crisantemi "carlini"stanno spuntando i boccioli. E' il momento giusto per pensare ai fiori della primavera, da settembre si interrano i bulbi per le prime fioriture di marzo- aprile:,tulipani, narcisi, crochi, ... Scelta impegnativa e appassionante. E non dimentichiamo i muscari...
mercoledì 12 settembre 2012
una lettura divertente : Le partenze dello zio Podger di Jerome K. Jerome
Acchiappammo il treno per la coda, come si dice e, mentre ci sedevamo col fiato grosso nella vettura, passò nitidamente innanzi al mio spirito il panorama di mio zio Podger, perchè duecentocinquanta volte all'anno egli soleva partire da Ealing Common alle nove e tredici per via Moorgate.
Dalla casa di mio zio Podger alla stazione della ferrovia corre una passeggiata di otto minuti. Mio zio diceva sempre: - Avviatevi un quarto d'ora prima, e prenderete comodamente il treno.-
Ma egli si avviava soltanto cinque minuti prima e si metteva a correre. Non so perchè, ma questo era l'uso del suburbio. In quei giorni molti signori grassi abitavano a Ealing - io credo che vi abitino ancora- e partivano coi primi treni per la città. Tutti s'avviavano tardi alla stazione; portavano in una mano una borsa nera e un giornale, e nell'altra un ombrello; e per l'ultimo quarto di miglio verso la stazione, piovesse o facesse bello, correvano tutti. Gente con nient'altro da fare, principalmente balie e fattorini, con qualche rivendugliolo, qua e là, si raccoglievano ai due lati della strada, nelle belle mattine, per vederli passare, e incoraggiare i più meritevoli. Non era uno spettacolo da annunziare con un cartellone. I corridori non correvano bene, neppure andavano svelti; ma ci mettevano tutta la loro buona volontà e facevano del loro meglio.Lo spettacolo si rivolgeva più alla naturale ammirazione di uno sforzo coscienzioso che al sentimento artistico. Di tanto in tanto qualche piccola, innocente scommessa aveva luogo tra la folla.
- Due contro uno per quel vecchio vestito di bianco.
- Dieci per quella vecchia cornamusa; scommetto che resta così curvo finchè non arriva.
- Sette per quel Gambero - un nomignolo dato da un ragazzo di tendenze zoologiche a un certo militare in ritiro, vicino di mio zio, un signore di aspetto solenne quand'era seduto, ma soggetto a colorarsi molto sotto uno sforzo.
Mio zio e gli altri scrivevano al giornale di Ealing deplorando amaramente l'inerzia locale, e il direttore aggiungeva dei vivaci cappelli sulla decadenza della cortesia fra le classi inferiori, specialmente dei suburbi occidentali. Ma senza frutto.
Non che mio zio si alzasse tardi; ma perchè sorgeva un monte d'ostacoli all'ultimo momento. La prima cosa che faceva ,dopo colazione, era di prendere il giornale. Indovinavamo sempre quando zio Podger aveva perduto qualche cosa, dall'espressione di atterrita indignazione con cui in simili casi egli guardava il mondo in generale. Non veniva mai a mio zio Podger in mente di dirsi:
- Sono un trascurato. Non so mai dove ho messo un oggetto. Sono incapace di ritrovarlo da me. Sotto questo aspetto debbo essere un vero malanno per quanti mi stanno d'attorno. Debbo mettermi di punta a correggermi.
Al contrario, per qualche suo strano metodo di ragionamento, si convinceva che quando perdeva una cosa la colpa non era sua; ma degli altri.
- Un minuto fa l'avevo in mano - esclamava.
Dal tono si sarebbe pensato che egli vivesse circondato da prestidigitatori che facevan volare via gli oggetti semplicemente per irritarlo.
- L'avessi lasciato nel giardino?- diceva mia zia.
- Perchè avrei dovuto lasciarlo nel giardino? Non mi occorre nel giardino; mi occorre in treno.
- Guardati in tasca.
- Che Dio ti benedica! Credi che starei qui, alle nove meno un quarto, se lo avessi in tasca? Mi credi uno sciocco?
A questo punto qualcuno esclamava:
- E questo che è?
E tirava fuori da qualche parte un giornale accuratamente piegato.
- Vorrei che la mia roba non la toccasse nessuno - ringhiava mio zio, afferrando il giornale con furia selvaggia. Faceva per metterlo nella valigetta, ma poi, dandogli un'occhiata, si arrestava senza parola, con un sentimento di offesa dipinto in viso.
- Che c'è? - chiedeva mia zia.
- E' dell'altro ieri! egli rispondeva, così arrabbiato che non poteva neppure gridare, gettando il giornale sulla tavola.
Se qualche volta fosse stato del giorno prima ci sarebbe stata una variazione. Ma era sempre di due giorni prima; meno il martedì, quando il giornale era del sabato.
A volte, quando egli non era seduto sopra il giornale, riuscivano a rintracciarglielo. E allora sorrideva, non genialmente, ma con la noia d'un uomo che sente che il destino lo ha gettato fra un branco d'idioti incurabili.
- Sempre dritti al naso!...- Egli s'interrompeva, orgoglioso di sapersi dominare.
E allora, si avviava al vestibolo, dove mia zia Maria aveva l'uso di raccogliere i bambini per dargli l'addio.
Dalla casa di mio zio Podger alla stazione della ferrovia corre una passeggiata di otto minuti. Mio zio diceva sempre: - Avviatevi un quarto d'ora prima, e prenderete comodamente il treno.-
Ma egli si avviava soltanto cinque minuti prima e si metteva a correre. Non so perchè, ma questo era l'uso del suburbio. In quei giorni molti signori grassi abitavano a Ealing - io credo che vi abitino ancora- e partivano coi primi treni per la città. Tutti s'avviavano tardi alla stazione; portavano in una mano una borsa nera e un giornale, e nell'altra un ombrello; e per l'ultimo quarto di miglio verso la stazione, piovesse o facesse bello, correvano tutti. Gente con nient'altro da fare, principalmente balie e fattorini, con qualche rivendugliolo, qua e là, si raccoglievano ai due lati della strada, nelle belle mattine, per vederli passare, e incoraggiare i più meritevoli. Non era uno spettacolo da annunziare con un cartellone. I corridori non correvano bene, neppure andavano svelti; ma ci mettevano tutta la loro buona volontà e facevano del loro meglio.Lo spettacolo si rivolgeva più alla naturale ammirazione di uno sforzo coscienzioso che al sentimento artistico. Di tanto in tanto qualche piccola, innocente scommessa aveva luogo tra la folla.
- Due contro uno per quel vecchio vestito di bianco.
- Dieci per quella vecchia cornamusa; scommetto che resta così curvo finchè non arriva.
- Sette per quel Gambero - un nomignolo dato da un ragazzo di tendenze zoologiche a un certo militare in ritiro, vicino di mio zio, un signore di aspetto solenne quand'era seduto, ma soggetto a colorarsi molto sotto uno sforzo.
Mio zio e gli altri scrivevano al giornale di Ealing deplorando amaramente l'inerzia locale, e il direttore aggiungeva dei vivaci cappelli sulla decadenza della cortesia fra le classi inferiori, specialmente dei suburbi occidentali. Ma senza frutto.
Non che mio zio si alzasse tardi; ma perchè sorgeva un monte d'ostacoli all'ultimo momento. La prima cosa che faceva ,dopo colazione, era di prendere il giornale. Indovinavamo sempre quando zio Podger aveva perduto qualche cosa, dall'espressione di atterrita indignazione con cui in simili casi egli guardava il mondo in generale. Non veniva mai a mio zio Podger in mente di dirsi:
- Sono un trascurato. Non so mai dove ho messo un oggetto. Sono incapace di ritrovarlo da me. Sotto questo aspetto debbo essere un vero malanno per quanti mi stanno d'attorno. Debbo mettermi di punta a correggermi.
Al contrario, per qualche suo strano metodo di ragionamento, si convinceva che quando perdeva una cosa la colpa non era sua; ma degli altri.
- Un minuto fa l'avevo in mano - esclamava.
Dal tono si sarebbe pensato che egli vivesse circondato da prestidigitatori che facevan volare via gli oggetti semplicemente per irritarlo.
- L'avessi lasciato nel giardino?- diceva mia zia.
- Perchè avrei dovuto lasciarlo nel giardino? Non mi occorre nel giardino; mi occorre in treno.
- Guardati in tasca.
- Che Dio ti benedica! Credi che starei qui, alle nove meno un quarto, se lo avessi in tasca? Mi credi uno sciocco?
A questo punto qualcuno esclamava:
- E questo che è?
E tirava fuori da qualche parte un giornale accuratamente piegato.
- Vorrei che la mia roba non la toccasse nessuno - ringhiava mio zio, afferrando il giornale con furia selvaggia. Faceva per metterlo nella valigetta, ma poi, dandogli un'occhiata, si arrestava senza parola, con un sentimento di offesa dipinto in viso.
- Che c'è? - chiedeva mia zia.
- E' dell'altro ieri! egli rispondeva, così arrabbiato che non poteva neppure gridare, gettando il giornale sulla tavola.
Se qualche volta fosse stato del giorno prima ci sarebbe stata una variazione. Ma era sempre di due giorni prima; meno il martedì, quando il giornale era del sabato.
A volte, quando egli non era seduto sopra il giornale, riuscivano a rintracciarglielo. E allora sorrideva, non genialmente, ma con la noia d'un uomo che sente che il destino lo ha gettato fra un branco d'idioti incurabili.
- Sempre dritti al naso!...- Egli s'interrompeva, orgoglioso di sapersi dominare.
E allora, si avviava al vestibolo, dove mia zia Maria aveva l'uso di raccogliere i bambini per dargli l'addio.
martedì 11 settembre 2012
I FIORI (S. Mallarmé 1849-1898)
Dalle valanghe d'oro dell'azzurro (all'aurora
del mondo ) e dalle nevi eternali degli astri,
tu dispiccasti, Dio, i grandi calici - allora
per la giovine terra, vergine di disastri.
Il gladiolo fulvo, i cigni alabastrini;
e quell'alloro etereo dell'anime esiliate,
rosso siccome l'alluce puro dei Serafini,
che invermiglia il pudore dell'albe violate.
Il giacinto ed il mirto, dal balenio divino;
e - di carni feminee - la disumana rosa,
Erodiade pomposa del florido giardino:
quella che, radioso, un truce sangue arrosa.
Ne traesti, dei gigli, singhiozzante, il candore,
che oceani di sospiri interminati sfiora,
e per gli azzurri incensi di tramonti in pallore,
trasognando, risale alla luna che plora.
Osanna a Te sul Sistro, e a Te dall'incensiere!
Osanna, o Padre, a Te, quaggiù dai nostri Limbi!
E lo prolunghi l'eco, per le mistiche sere,
in estasi di sguardi e in scintillio di n imbi,
o Padre, che creasti, nel cuore giusto e forte,
calici di promessa, al calice incantato,
intento a ricolmarsi d'un balsamo di morte,
per il poeta esausto, dalla vita prostrato.
del mondo ) e dalle nevi eternali degli astri,
tu dispiccasti, Dio, i grandi calici - allora
per la giovine terra, vergine di disastri.
Il gladiolo fulvo, i cigni alabastrini;
e quell'alloro etereo dell'anime esiliate,
rosso siccome l'alluce puro dei Serafini,
che invermiglia il pudore dell'albe violate.
Il giacinto ed il mirto, dal balenio divino;
e - di carni feminee - la disumana rosa,
Erodiade pomposa del florido giardino:
quella che, radioso, un truce sangue arrosa.
Ne traesti, dei gigli, singhiozzante, il candore,
che oceani di sospiri interminati sfiora,
e per gli azzurri incensi di tramonti in pallore,
trasognando, risale alla luna che plora.
Osanna a Te sul Sistro, e a Te dall'incensiere!
Osanna, o Padre, a Te, quaggiù dai nostri Limbi!
E lo prolunghi l'eco, per le mistiche sere,
in estasi di sguardi e in scintillio di n imbi,
o Padre, che creasti, nel cuore giusto e forte,
calici di promessa, al calice incantato,
intento a ricolmarsi d'un balsamo di morte,
per il poeta esausto, dalla vita prostrato.
fotografia Piero Reggio |
lunedì 10 settembre 2012
domenica 9 settembre 2012
Omaggio al nostro cielo :Cel piemonteis di Nino Costa (1886-1945)
Nost cel l’é ancura nen cul cel famus
ch’a fa l’arciam d’Italia aj foresté.
L’é un cel da muntagnard e da bergé:
nìvul suens e mincatant nebius.
ch’a fa l’arciam d’Italia aj foresté.
L’é un cel da muntagnard e da bergé:
nìvul suens e mincatant nebius.
Però quand ch’a se specia an s’ij giassé
quand ch’a se slarga pasi e lüminus
e quand ch’a rij, giojus cume ne spus,
sij camp e vigne, che bel cel ch’a l’é!
quand ch’a se slarga pasi e lüminus
e quand ch’a rij, giojus cume ne spus,
sij camp e vigne, che bel cel ch’a l’é!
E pöi l’é nost, l’é el cel del nost pais
l’é anduva ch’a punto ij vej le sguard profund
e le maraje a sciairo el Paradis…
l’é anduva ch’a punto ij vej le sguard profund
e le maraje a sciairo el Paradis…
E el Piemunteis, pussà da so travaj,
l’ha bel giré la tera e vëde ed mund,
ma el cel, so cel, a lo desmentia mai.
l’ha bel giré la tera e vëde ed mund,
ma el cel, so cel, a lo desmentia mai.
fotografia Piero Reggio |
sabato 8 settembre 2012
venerdì 7 settembre 2012
PRIMA DI MATTINA (T. S. ELIOT)
Mentre tutto l'oriente intrecciava il rosso al grigio,
i fiori alla finestra si volsero verso l'alba,
petalo su petalo, aspettando il giorno,
fiori freschi, fiori appassiti, fiori d'alba.
I fiori di stamattina e i fiori di ieri,
la loro fragranza aleggia per la stanza all'alba,
fragranza di germogli e fragranza di appassimento,
fiori freschi, fiori appassiti, fiori d'alba.
i fiori alla finestra si volsero verso l'alba,
petalo su petalo, aspettando il giorno,
fiori freschi, fiori appassiti, fiori d'alba.
I fiori di stamattina e i fiori di ieri,
la loro fragranza aleggia per la stanza all'alba,
fragranza di germogli e fragranza di appassimento,
fiori freschi, fiori appassiti, fiori d'alba.
fotografia Piero Reggio |
giovedì 6 settembre 2012
per un amico
In un tempo imprecisato
un vento d'autunno
ha scosso
l'albero vicino al cuore.
Ricordo
di un'antica primavera
foglie marcite
appiccicate alla pelle.
Amico mio
saresti venuto
senza inutile bagaglio.
Avremmo corso sull'arena
su cavalli di fuoco
sfidato agli scacchi
o alla lotta.
Una donna
sarebbe giunta dal mare.
Per lei
avremmo giocato
la vita
e la morte.
Avresti vinto
amico mio
che non sei più.
un vento d'autunno
ha scosso
l'albero vicino al cuore.
Ricordo
di un'antica primavera
foglie marcite
appiccicate alla pelle.
Amico mio
saresti venuto
senza inutile bagaglio.
Avremmo corso sull'arena
su cavalli di fuoco
sfidato agli scacchi
o alla lotta.
Una donna
sarebbe giunta dal mare.
Per lei
avremmo giocato
la vita
e la morte.
Avresti vinto
amico mio
che non sei più.
fotografia Piero Reggio |
mercoledì 5 settembre 2012
LA MENTE E' UNA COSA CHE INCANTA (MARIANNE MOORE 1887-1961)
è una cosa incantata,
come lo smalto sopra
un'ala di locusta,
suddiviso dal sole
finchè le trame sono una legione.
Come Gieseking che suona Scarlatti;
come il punteruolo che l'apteryx
ha per becco, oppure come
lo scialle da pioggia del kivi,
fatto di piume filiformi, la mente
tenta la strada come fosse cieca
e cammina tenendo gli occhi a terra.
Ha l'orecchio della memoria,
che sa udire senza
dover udire.
Come l'inclinazione del giroscopio,
che è davvero univoca perchè
imperante certezza la governa,
è un potere
di forte incantamento.
E'come il collo della
colomba, animato
dal sole; è l'occhio della memoria;
è incoerenza coscienziosa.
E strappa il velo; squarcia
la tentazione,
la nebbia che il cuore porta addosso,
gliela strappa dagli occhi - se pure
il cuore ha un volto; dissipa
lo scoramento . E' fuoco nell'iridescenza
del collo della colomba; nelle
incoerenze
di Scarlatti.
Ordine sottopone
a prova il suo disordine; non è
un giuramento di Erode, che non può mutare.
come lo smalto sopra
un'ala di locusta,
suddiviso dal sole
finchè le trame sono una legione.
Come Gieseking che suona Scarlatti;
come il punteruolo che l'apteryx
ha per becco, oppure come
lo scialle da pioggia del kivi,
fatto di piume filiformi, la mente
tenta la strada come fosse cieca
e cammina tenendo gli occhi a terra.
Ha l'orecchio della memoria,
che sa udire senza
dover udire.
Come l'inclinazione del giroscopio,
che è davvero univoca perchè
imperante certezza la governa,
è un potere
di forte incantamento.
E'come il collo della
colomba, animato
dal sole; è l'occhio della memoria;
è incoerenza coscienziosa.
E strappa il velo; squarcia
la tentazione,
la nebbia che il cuore porta addosso,
gliela strappa dagli occhi - se pure
il cuore ha un volto; dissipa
lo scoramento . E' fuoco nell'iridescenza
del collo della colomba; nelle
incoerenze
di Scarlatti.
Ordine sottopone
a prova il suo disordine; non è
un giuramento di Erode, che non può mutare.
fotografia Piero Reggio |
martedì 4 settembre 2012
IL LAVORO FEMMINILE da "La vita quotidiana a Parigi ai tempi del re Sole" di J. Wilhelm
Niente impediva alle mogli e alle figlie di artigiani di aiutare questi ultimi nel loro lavoro, se ne erano capaci, e parecchie di esse aggiungevano ai compiti domestici lavori di cucito per la clientela privata, o erano impiegate presso i fabbricanti di tessuti. Un dato curioso; essi solo, infatti, ottennero il diritto di vestire le donne, tranne che per la biancheria, e questo fino al 1675. In quella data si costituì una corporazione di maestre sarte. Esse tuttavia dovettero ancora limitarsi a tagliare e cucire vestaglie e sottovesti, visto che i commercianti di tessuti conservavano il privilegio di fare gli indumenti di sopra nonchè i corsetti. C'erano millesettecento maestre sarte a Parigi nel 1675, stando al Parfait négociant di Savary. Le cucitrici in bianco avevano i negozi in rue Aubry-le-Boucher, che sbucava in rue Saint-Denis e nella vicinissima rue des Lingères (appunto, delle cucitrici in bianco), nelle case addossate all'ossario del cimitero des Innocents. Vendevano anche alle Halles e nelle gallerie del Palais, dove le raffinate venivano a comprare cuffiette, scialli e altri fronzoli alla moda. Il loro apprendistato durava quattro anni, dopodichè dovevano ancora passare altri due anni come ragazze di bottega, cioè venditrici, prima di accedere alla dignità di maestre. Le maestre, d'altro canto, avevano diritto a una sola apprendista. Nonostante l'obbligo di "buona condotta e buoni principi morali" previsto nel loro statuto, come del resto in quello di tutti i mestieri, non godevano fama di essere particolarmente virtuose. E' anche vero che le ragazze di bottega andavano scelte fra le più belle, più richieste delle altre. Dai tempi remoti in cui, per le feste, si confezionavano cappelli di fiori freschi, le pettinatrici-fioraie avevano conservato questa denominazione. Tuttavia, erano rimaste semplicemente fioraie nel XVII secolo e vendevano sopratutto i loro fiori per le strade o in alcuni negozietti. I loro statuti, particolarmente severi, prevedevano che avrebbe perso il grado di maestra "ogni iscritta alla corporazione provata colpevole di aver mancato al proprio onore". Poichè sembrerebbe che tale norma non sia mai stata applicata, se ne dovrebbe dedurre che esse abbiano scrupolosamente rispettato tale condizione. Non si trova invece più traccia del mestiere di pettinatrice, nel significato che oggi si attribuisce a tale termine. Il maggior numero di lavoratrici donne si incontrava ai mercati. Esse vendevano i più svariati prodotti, dal momento che a chiunque era consentito portarvi granaglie o legumi, se si trattava di prodotti propri. Le venditrici di pesce , o pescivendole, si facevano notare per la vivacità e l'asprezza del loro linguaggio. Ma, per questo o per altri motivi, le donne dei mercati generali (Les Halles) vi si distinsero al punto che era loro permesso di recarsi, ogni anno, a offrire auguri e qualche dono al re e alla regina, che si divertivano molto a quelle visite. Pochi mestieri erano dunque accessibili alle donne, anche se potevano essere venditori, o meglio venditrici, di granaglie, come gli uomini, cioè commercianti di granaglie, e i giurati del mestiere erano, a parità, due uomini e due donne.
lunedì 3 settembre 2012
RISTORO (ADA NEGRI 1870-1945)
Peso immoto di nubi
che mi spossava, or s'è disciolto. All'ombra
del boschetto di querce su le spesse
fronde tamburellar sento le prime
gocce di pioggia. O senso
di liberata, rorida freschezza!
Dolce. Più dolce quando sulle mani
e sul volto proteso alcuna stilla
ricevo.
Piovon su di me le gocce
rade ma grevi, diacce e ardenti insieme,
nell'ombra verde. E le mie mani e il viso,
e, non so come, il cuore,
domenica 2 settembre 2012
sabato 1 settembre 2012
primo giorno di settembre...
... o di autunno? Piove da ieri, le Langhe sono nascoste da una nebbiolina leggera e le cime delle Alpi sono spruzzate di neve. Il bel viale degli Angeli, ieri così ombroso e verde, ha già un tappeto di foglie gialle e fa malinconia; i fiori stanno perdendo i loro colori, ma sono ancora eretti e vivaci. Il gatto dei vicini ha deciso che non valeva la pena di uscire con questo tempo e certamente starà ronfando beatamente. Non si sentono neanche i passerotti e in giro non c'è nessuno: anteprima di autunno...
fotografia Piero Reggio |
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